Alessandro Agresti
Leggi i suoi articoliIl monastero e la chiesa di santa Aurea sono ricordati fin dal XIV secolo, e furono un luogo particolarmente florido: lo testimonia d’altronde lo splendido e non molto noto trittico di Lippo Memmi, oggi conservato all’Angelicum di Roma, che proviene proprio da quel luogo. Già agli inizi del Cinquecento il complesso era in stato di abbandono, così qualche decennio più tardi, nel 1572, Gregorio XIII lo donò ai napoletani residenti a Roma, che così ottennero la loro chiesa in un luogo di particolare importanza a quel tempo, lungo il rettifilo di Via Giulia, voluto da Leone X per collegare il centro al Vaticano (anche le chiese dei sensi e dei fiorentini ebbero lì le loro fondazioni).
Lungo e travagliato il cantiere: in origine era stato progettato da Ottavio mascherino un edificio a pianta ellittica (il cui disegno è tutt’ora conservato all’Accademia di San Luca) mentre la facciata venne terminata solo nel 1649, su progetto di Cosimo Fanzago (testimoniata da un acquerello di Pinelli). Dalla seconda metà del Seicento un cardinale e giureconsulto di primaria importanza, Giovanni Battista de Luca, seguì una seconda campagna di lavori, diretta in due tranche da Carlo Fontana (1666-1668; 1700-1708).
Non casualmente quindi gli esecutori testamentari del porporato – i monsignori Panciatichi e Spinola - scelsero proprio la chiesa del Santo Spirito dei Napoletani perché ospitasse il suo solenne deposito, eseguito da Domenico Guidi e terminato nel 1693; in origine addossato alla controfacciata, è stato spostato per ben due volte prima di trovare l’attuale, definitiva collocazione. Infatti ancora nell’Ottocento, più precisamente nel 1853, si svolse l’ultima riqualificazione dell’edificio, ad opera di Antonio Cipolla al quale dobbiamo l’attuale, sobria facciata di gusto purista, neo rinascimentale al pari dell’interno riccamente decorato anche dagli affreschi di Pietro Gagliardi.
Tra le opere che possiamo ammirare spicca tra tutte la magnifica pala di Luca Giordano con Il martirio di San Gennaro, certamente uno dei capolavori della fase estrema della sua lunga e prolifica carriera, che qui pare rimontare all’educazione solimenesca nei suggestivi raffronti luministici e negli improvvisi bagliori che enfatizzano la drammaticità del momento raffigurato, porto con appassionata enfasi al riguardante.
Andando avanti nel tempo sono da segnalare i vezzosi affreschi della cupola di Giuseppe Passeri e la solenne pala del bolognese Domenico Maria Muratori con San Tommaso d’Aquino risana un fanciullo, impostata secondo un solenne eloquio classicheggiante che nella sua nitidezza formale raggiuge un notevole esito qualitativo. Termino con la Madonna del fulmine già attribuita ad Antoniazzo Romano, che nella sua non disdicevole esecuzione – apprezzabile nonostante il non perfetto stato conservativo - meriterebbe forse una maggiore fortuna rispetto a quella di semplice dipinto devozionale.
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